Mese: maggio 2018

Una persona su tre al mondo soffre di pressione alta ma non lo sa

Una persona su tre al mondo soffre di pressione alta ma non lo sa

Una persona su tre al mondo soffre di pressione alta senza saperlo, anche per questo, di recente, Federfarma ha realizzato una campagna di sensibilizzazione e di screening in seimila farmacie

Più di un terzo delle persone al mondo soffre di pressione alta, un problema che ogni anno provoca 10 milioni di decessi. Ciò che emerge da uno studio condotto a livello globale dai ricercatori dell’Università dell’Australia Occidentale però, è che sono moltissimi coloro che ne soffrono senza esserne coscienti.

pressione alta
pressione alta

Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista medica Lancet Global Health, ha analizzato 1,2 milioni di persone aventi un’età pari a 18 anni, in 80 paesi in tutto il mondo. Il risultato è stato che il 34,5% delle persone sottoposte a controlli, presentava la pressione alta, oltre 140/90.

Il dato rilevante è che di queste persone, il 17% non stava osservando alcun trattamento mentre il 46,7% stava ricevendo un trattamento, tuttavia la pressione sanguigna non risultava ancora nella norma, dunque fuori controllo.

“Ciò che è davvero allarmante -ha affermato l’autore principale dello studio Markus Schlaich- è che quasi la metà delle persone che erano già in cura per l’ipertensione avevano ancora una pressione sanguigna superiore ai livelli raccomandati. In altre parole metà dei pazienti sono trattati in modo inadeguato”.

La cosa starna è che la disponibilità dei farmaci c’è, ma secondo Markus Schlaich ciò si verifica perché “in gran parte, è dovuto al fatto che le persone non assumono i medicinali in quanto hanno avuto effetti collaterali o temono di averne”.

Nel frattempo in Italia, si è tenuta l’iniziativa “Abbasso la pressione!”, organizzata da Federfarma dando la possibilità agli utenti di approfittare di queste giornate di prevenzione che hanno costituito la prima campagna nazionale per il controllo dell’ipertensione.

Un’iniziativa che ha visto la misurazione gratuita della pressione e consigli utili su come prevenire o affrontare il fenomeno. Le farmacia coinvolte per lo screening gratuito sono state 6.000 in tutta Italia.

Frutta secca, un valido alleato contro la fibrillazione atriale

Frutta secca, un valido alleato contro la fibrillazione atriale

Una ricerca durata ben vent’anni ha dimostrato come noci, mandorle e nocciole siano utili contro l’aritmia

Alimenti noci, nocciole e mandorle sono infatti utili a ridurre il rischio di incappare in questa condizione. Lo porta alla luce uno studio del Karolinska Institutet e dell’Università di Uppsala, in Svezia, pubblicato su Heart. Dal risultato si evidenzia come un consumo abituale può ridurre sensibilmente il rischio di sviluppare insufficienza cardiaca.

Frutta secca, un valido alleato contro la fibrillazione atriale
Frutta secca, un valido alleato contro la fibrillazione atriale

Utili alla ricerca le risposte a un questionario sulla frequenza alimentare e le informazioni sullo stile di vita posto a più di 61.000 svedesi di età compresa tra i 45 e gli 83 anni. La loro salute cardiovascolare è stata monitorata per 17 anni (fino alla fine del 2014) o fino alla loro morte. Durante il periodo in questione si sono verificati 4983 infarti, 3160 casi di insufficienza cardiaca e 7550 casi di fibrillazione atriale.

Chi mangiava frutta secca abbassava il rischio di fibrillazione atriale. Questo il dato significativo: una porzione una o tre volte al mese era associata a un rischio ridotto di appena il 3%, che saliva al 12% per il consumo una o due volte a settimana e al 18% per tre o più volte.

Gli studiosi sottolineano che la frutta secca, in particolar modo le noci, risultano essere fonti di acidi grassi insaturi, proteine, fibre, minerali, vitamina E, folati e altri composti bioattivi come fenoli e fitosteroli.

Il consumo può influire sulla salute cardiovascolare migliorando i livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue, riducendo il rischio di aumento di peso attraverso effetti antiossidanti e anti-infiammatori.

Un gel per riparare i danni al cervello provocati dall’ictus

Un gel per riparare i danni al cervello provocati dall’ictus

Una innovativa sostanza “gel biotech” testata sui topi, ha rigenerato le connessioni nervose andando a riparare i danni al cervello provocati dall’ictus

Un esperimento che offrirebbe nuovi scenari per tutte quelle persone che sono state colpite da ictus cerebrale è stato svolto con successo dai ricercatori dell’Università della California a Los Angeles.

I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Nature Materials. “Questo studio indica che nuovo tessuto cerebrale può essere rigenerato in quella che prima era solo una cicatrice inattiva del cervello” – ha spiegato il neurologo Stanley Thomas Carmichael.

ictus
ictus

La problematica, derivante dalla lesione provocata dall’ictus, è costituita dal tessuto cerebrale “morto” che viene riassorbito, lasciando una cavità priva di vasi sanguigni, neuroni e fibre nervose.

I ricercatori californiani hanno quindi pensato di produrre uno speciale gel che, una volta iniettato nel cervello, agisce cambiando spessore e consistenza, assumendo le proprietà del tessuto cerebrale formando una sorta di ‘impalcatura’ che sostiene la rigenerazione.

L’idea è stata sottoposta a esperimento tramite il gel, infuso nei topi, nei giorni immediatamente successivi all’ictus, insieme a molecole che stimolano la formazione di vasi sanguigni e sopprimono l’infiammazione, con quest’ultima che è la causa della formazione delle cicatrici che impediscono la crescita di nuovo tessuto funzionale.

L’effetto è stato quello di ottenere un tessuto cerebrale rigenerato con nuovi circuiti neurali mostrando un miglioramento delle capacità motorie. Un risultato mai conseguito prima d’ora ma che non chiarisce il meccanismo che ha prodotto questo effetto.

“Può essere che le nuove fibre nervose siano davvero funzionanti oppure che il nuovo tessuto migliori in qualche modo le performance del tessuto sano circostante” – ha affermato la biochimica Tatiana Segura.

Il gel biotech è stato completamente riassorbito dal corpo, lasciando soltanto il nuovo tessuto rigenerato, un risultato eccezionale che, di fatto, ha concluso l’esperimento.

Se Lui depresso, ridotte le possibilità che Lei resti incinta

Se Lui depresso, ridotte le possibilità che Lei resti incinta

La depressione maschile riduce le possibilità che Lei resti incinta sotto al 60%, lo dice uno studio USA pubblicato su Fertility and sterility

Sono minori del 60% le possibilità che Lei resti incinta se il suo uomo soffre di depressione. Questo il dato generato da uno studio effettuato dai ricercatori dell’Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development (uno dei National Institutes of Health (NIH) del Dipartimento di Salute degli Stati Uniti).

Depressione maschile, ridotte le possibilità che Lei resti incinta
Depressione maschile, ridotte le possibilità che Lei resti incinta

In particolare, sono state esaminate coppie trattate per l’infertilità. Lo studio ha messo a confronto i dati generati da due ricerche differenti.

Una ha dimostrato che il 40% delle donne che cercano trattamenti per la fertilità, mostra sintomi di depressione, l’altra invece ha evidenziato che tra gli uomini che eseguono trattamenti di fecondazione in vitro, quasi la metà ha sperimentato questo problema.

I ricercatori dell’Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development però, si sono spinti oltre a questi dati, cercando di capire qual è la potenziale influenza che la depressione può avere tra le coppie che cercano un figlio.

I dati dei due studi effettuati in precedenza, si riferivano a 1.650 donne e 1.608 uomini. Il dato che ne è emerso riguarda la difficoltà per il concepimento e la nascita del bimbo, per quelle coppie in cui l’uomo soffriva di depressione maggiore. In questi casi infatti le possibilità si abbassavano al di sotto del 60%, rispetto a coppie in cui l’uomo non manifestava problematiche di questo genere.

“Il nostro studio fornisce ai pazienti con infertilità e ai loro medici nuove informazioni da prendere in considerazione quando prendono decisioni terapeutiche” – ha detto l’autore principale, Esther Eisenberg.

Sideremia, cos’è e cosa fare se è alta o bassa

Sideremia, cos’è e cosa fare se è alta o bassa

Il ferro è un elemento importante essenziale per la vita perché è coinvolto in moltissimi processi biochimici come la formazione dell’emoglobina e dei citocromi; la sideremia rappresenta la quantità di ferro di trasporto nel sangue.

Per sapere qual è la quantità di ferro presente nel sangue è necessario conoscere i valori della sideremia che, per l’appunto, è misurazione della quantità di ferro presente nel plasma legato alla transferrina, la quale è invece la proteina che trasporta il ferro nell’organismo e per questo chiamata anche “ferro circolante”.

Sideremia, cos'è e cosa fare se è alta o bassa
Sideremia, cos’è e cosa fare se è alta o bassa

Proprio la sideremia misura questa quantità di ferro circolante, cioè di quello che viene assorbito dal fegato e dall’intestino, in particolare nel duodeno e viene trasportato ai tessuti dell’organismo che ne hanno bisogno.

Naturalmente, la sola misurazione della sidermia non è sufficiente a stabilire lo stato di salute di una persona. Per avere un quadro più completo è necessario infatti eseguire un’analisi del metabolismo del ferro, che comprenda la quantità di transferrina e la ferritina.

La misurazione della sideremia serve a rilevare eventuali forme di anemia, dati da confrontare con altre analisi. I valori sono espressi in microgrammo per decilitro (mcg/dl): 75/150 per gli uomini; 60/140 per le donne. Tali valori però possono variare, oltre che in base al sesso, anche all’età, allo stato di salute generale della persona, allo stile di vita e dunque all’attività che svolge.

La sideremia può quindi rientrare nella norma ma naturalmente può anche assumere dei valori alti o bassi. Un valore alto di sideremia può essere generato da una forma di anemia causata da un’epatite virale acuta, da malattie genetiche come la talassemia e dall’eccessiva presenza di ferro nel sangue in seguito a terapie, trasfusioni e stili alimentari sbilanciati. Una sideremia alta può essere causata anche da avvelenamento da piombo.

La sideremia bassa invece, può dipendere da un carente apporto di ferro nella dieta, un cattivo assorbimento del ferro a livello intestinale dovuto alla celiachia, al malassorbimento o altre patologie intestinali e a perdite o cali di ferro nell’organismo dovuti a condizioni fisiologiche come la gravidanza o le mestruazioni o patologiche come le emorragie.

Diabete, 1 malato su 2 vive in città

Diabete, 1 malato su 2 vive in città

Viene definito anche come diabete urbano, perché 1 malato su 2 vive in città. Per la prevenzione diventano determinanti gli stili di vita, è quanto affermano gli esperti

La nuova epidemia si chiama diabete urbano e affligge le città italiane. Nelle metropoli infatti v’è una maggiore concentrazione di persone malate di diabete, è quanto emerso dal 27/mo Congresso della Società italiana di diabetologia (Sid).

diabete
diabete

L’allarmante situazione nasce da una ricerca che pone la problematica sugli stili di vita delle persone. Proprio ai cittadini si rivolgono gli esperti esortandoli a cambiare le abitudini quotidiane.

I diabetologi, riunitisi a congresso, hanno lanciato un appello chiedendo di condurre una vita più sana e soprattutto sollecitandoli a muoversi maggiormente a piedi o in bicicletta a discapito di mezzi di trasporto meno salutari da questo punto di vista.

Sono queste le prime armi che aiuterebbero a prevenire questa patologia. «Il problema del diabete urbano è un problema globale. L’International Diabetes Federation prevede che nel 2045 i tre quarti della popolazione diabetica vivranno nelle metropoli o in città. Inoltre, si sta assistendo ad un incremento dell’obesità in coloro che vivono in aree urbane» – afferma il presidente Sid Giorgio Sesti.

E’ necessario dunque diffondere fra gli italiani una maggiore consapevolezza dei rischi legati al diabete, per tale motivo afferma Sesti che «Proprio per sensibilizzare le istituzioni ed i cittadini – afferma Sesti – la Società ha aderito al progetto Cities Changing Diabetes, allo scopo di promuovere stili di vita virtuosi».

PCR, proteina C reattiva: cos’è e qual è la sua funzione

PCR, proteina C reattiva: cos’è e qual è la sua funzione

La proteina C reattiva (PCR) è una proteina prodotta dal fegato e dagli adipociti (le cellule del tessuto adiposo), il suo aumento ematico è sintomo di infiammazione in corso nell’organismo

La proteina C reattiva (PCR) è un’alfaglobulina, fa parte della famiglia delle proteine, viene attivata proprio da un’infiammazione o da un trauma fisico.

PCR, proteina C reattiva: cos'è e qual è la sua funzione
Analisi del sangue – PCR, proteina C reattiva: cos’è e qual è la sua funzione

Il valore della PCR è però aspecifico, ovvero si tratta di un ottimo indicatore in base al quale si decide di indagare la situazione clinica con esami ematici più specifici ma non indica il sito preciso dell’infiammazione (flogosi).

Maggiore sarà lo stato infiammatorio e più sarà alta la quantità di proteina C reattiva sintetizzata che invece per mantenersi nei valori accettabili, deve essere inferiore a 8 mg/l di sangue.

L’attivazione di questa proteina può derivare da diverse patologie, come: reumatismi; infezioni batteriche o virali (come polmonite, cistite, otite, vaginite e così via); infarto miocardico; operazioni chirurgiche e traumi; morbo di Crohn; patologie autoimmuni; ascessi; addominali; peritonite; tumori.

In ogni caso, quando c’è un’infiammazione in corso nell’organismo, il valore della proteina C reattiva aumenta e diventa dosabile in laboratorio.

Il medico prescrive il dosaggio della PCR nei casi in cui si desidera: valutare l’evolversi del processo infiammatorio; stabilire l’efficacia di una terapia antinfiammatoria; verificare il processo di guarigione di ferite chirurgiche, ustioni o simili; valutare il rischio dello sviluppo di coronaropatie.

Come detto, si tratta di un marcatore generale dell’infiammazione. Il suo valore servirà poi per prescrivere ulteriori indagini diagnostiche specifiche per il singolo caso.

Clinical Control – Corso Italia, 154 – CAP 87046, Taverna di Montalto Uffugo (Cosenza).

Un test delle urine, per sapere quanto velocemente stiamo invecchiando

Un test delle urine, per sapere quanto velocemente stiamo invecchiando

Per sapere quanto sta invecchiando il nostro corpo, basta fare un test delle urine. Non è una provocazione scientifica priva di fondamento, ma uno studio approfondito pubblicato su Frontiers.

Test delle Urine
Test delle Urine

Tutti conosciamo la nostra età cronologica, ma i nostri corpi invecchiano a velocità diverse. Quindi, più che aspettarsi di invecchiare e morire perchè si ha una certa età, sarebbe più logico conoscere prima lo stato di invecchiamento del proprio corpo, che potrebbe essere paradossalmente basso a 50 anni, e alto a 30.

Molto dipende dall’ambiente in cui viviamo, dal nostro stile di vita, o dalla genetica. Sapere quanto velocemente stiamo invecchiando significherebbe poter anche intervenire su uno di questi tre fattori, per invertire la tendenza. Ma come scoprirlo?

Grazie ai sottoprodotti dell’ossigeno, che col tempo procurano danni ossidativi a DNA e RNA. I marcatori di questo processo si chiamano 8-oxoGsn, e aumentano con l’età. Studiare il livello di 8-oxoGsn nelle urine, significa conoscere la percentuale del danno ossidativo nel nostro corpo: tanto più 8-oxoGsn viene riscontrato, tanto più siamo invecchiati.

La ricerca ha coinvolto 1228 persone residenti in Cina, ma era partita da studi che già tentavano di dimostrare la connessione tra invecchiamento e danni ossidativi negli animali. Conoscere il proprio stato di invecchiamento attraverso un semplice test delle urine, oggi potrebbe segnalare importanti segnali che un’inversione di tendenza nel proprio stile di vita, è necessaria.

Setticemia: con il test rapido basta una goccia di sangue per diagnosticarla

Setticemia: con il test rapido basta una goccia di sangue per diagnosticarla

Daniel Irimia, dalle pagine della rivista Nature Biomedical Engineering, annuncia che sarà possibile diagnosticare la setticemia a partire da una semplice analisi del sangue, con una percentuale di successo del 95%.

Il ricercatore del Massachusetts General Hospital di Boston abbatte quindi la possibilità di errore, che allo stato attuale delle cose, si aggira intorno al 30%.

Test per Setticemia
Test per Setticemia

Le analisi odierne restituiscono risultati incerti, procurando ai pazienti un immotivato uso di antibiotici, o nel caso contrario, negligenze mortali.

Su 42 individui, il metodo Irimia ha fallito solo due volte. Quaranta, invece, le diagnosi esatte. Con le analisi del sangue disponibili oggi, gli errori sarebbero stati non due, ma dodici.

Questi straordinari risultati si basano su un piccolo labirinto: vi si lascia colare una goccia di sangue, che comincia a distribuirsi attraverso i microscopici canali del labirinto.

A seconda di come si muovono i neutrofili, un software è in grado di comprendere se quel sangue appartiene ad un paziente affetto da sepsi o meno. Daniel Irimia sembra aver trovato il modo per diagnosticare con maggiore sicurezza una malattia in moltissimi casi mortale.

La sperimentazione del suo metodo su un campione di volontari più alto, potrebbe voler dire molto, per la medicina e per le chances di sopravvivenza di chi viene colpito dalla setticemia.